SANDRO MAGNOLER

Quando il pensiero poetico dell’arte si fa verità

Intervista di Serena Filippini
Come prendono forma in lei l’interesse per l’arte e il desiderio di creare?

La musica mi ha accompagnato fin da giovanissimo, suonavo il contrabbasso, ho avuto diverse esperienze in ambito jazzistico che hanno rappresentato il mio primo contatto con l’arte e la creatività. Presto, mosso da una grande curiosità, mi sono avvicinato alla sperimentazione sonora e, travolto da questa esperienza, sono arrivato fino a John Cage ed è da qui che ho sentito la necessità non solo di ascoltare ma anche di costruire e vedere. Non credo fosse un semplice desiderio di creare, quanto una necessità di completamento, di materializzazione di tutti quegli stati emozionali derivanti dall’ascolto, emozioni che non volevo perdere. Ne sono conseguiti un grande interesse verso l’arte moderna e contemporanea e la passione per il collezionismo che hanno contribuito a consolidare il mio rapporto con l’arte.

Dall’osservazione delle sue opere emerge insistentemente una necessità di verità, l’evocazione di elementi concreti attraverso il pensiero poetico della sua arte. Da dove nasce questo bisogno?

Qui vanno presi in considerazione i lavori degli ultimi anni, nei quali non vi è un progetto preliminare ma una vera e propria trasposizione materiale della visione onirica del lavoro stesso da cui nasce il suo assemblaggio. Ho sempre pensato che la rappresentazione di un oggetto trovi la sua massima espressione nell’utilizzo dell’oggetto stesso, come è stato in qualche modo con la fotografia rispetto alla pittura figurativa; la necessità di verità è la mia necessità del vero, del reale, senza compromessi, non concepisco l’idea di dipingere una bottiglia ma di usare una vera bottiglia, questa è la verità, ciò che si vede è, penso che non si possa andare oltre all’originale.

Altra presenza che si può cogliere dalle sue opere è la percezione di un continuo divenire, come se stesse per accadere qualcosa; è da interpretare come metafora del caratteristico in fieri dell’essere umano stesso e della sua esistenza o come la reale imminenza di qualcosa che deve accadere e accadrà?

Mi sento di attribuire il continuo divenire allo scorrere del tempo, tempo che scorre anche nei miei lavori senza risparmiarli: io li vedo diversi tutti i giorni, vedo le loro appena percettibili modificazioni causate dal tempo e questo lo trovo romantico, stanno continuando ad evolversi, sta per accadere qualcosa, e qualcosa accade ogni giorno anche per me perché vivo la contemporaneità, influenzato dalla quotidianità, ma con la piena consapevolezza che quello che deve accadere e accadrà non è altro che il frutto dei nostri gesti. Confesso che sono molto timoroso nello scrutare a fondo quello che accadrà, ho un po’ paura!

I materiali delle sue opere sono vari, spesso comuni e riconoscibili, assemblati in modo originale così da creare dialoghi inediti e mai didascalici. Come avviene la selezione e il loro conseguente accostamento?

La scelta dei materiali è sempre molto complessa, la discriminante è sempre il tempo, inteso come età, anzianità e maturità dell’oggetto. Esso infatti, statico e incapace di difendersi, di reagire o di mettersi al riparo, diventa inerte testimone del tempo e raccoglie in sé tutte quelle modificazioni strutturali e di superficie, dando origine ad un’estetica drammatica.
Il mio è un lavoro di ricerca per entrare in sintonia con lo scorrere del tempo negli oggetti, lasciando, per esempio, gli intonaci alle intemperie per mesi, usando acqua e sale per replicare l’usura della salsedine o propagando le ossidazioni sui ferri con il bitume di giudea e, in generale, favorendo l’incontro degli elementi che contribuiscono alla modificazione dei materiali per raggiugere il fine ultimo della percezione di una visione drammatica nella maturità dell’oggetto. Anche nella scelta dei materiali c’è sempre una necessità di verità: quando utilizzo stucchi, rasature, grasselli di calce ed intonaci veneziani voglio che sia tutto rigorosamente naturale, non solo per una ragione etica ma estetica, perché questi prodotti solo se naturali si avvicinano alla realtà in modo da fornire un vero “pezzo di muro” da guardare con tutte le sue esperienze e sofferenze. Infine l’assemblaggio dei materiali avviene all’interno di schemi sensoriali ed estetici: quando mi intimorisce vuol dire che manca poco al risultato finale, quando ne intravedo la drammaticità posso ritenerlo concluso.

Interessante è anche la non scontata apertura dei suoi lavori all’esterno, agli occhi degli osservatori, ai quali viene data l’opportunità di leggere le opere attraverso la loro personale interpretazione, arricchendole così di nuovi possibili spunti. Quanto è importante per lei questa condivisione di esperienze, di attribuzioni di senso e di memorie scaturite e riportate alla luce tramite l’osservazione dei suoi lavori?

Le esperienze di apertura verso l’esterno servono per soddisfare la mia necessità di confrontare il mio lavoro con le persone disinteressate, distratte, assorte, ritenendo che solo così io possa recepire sensazioni forti cariche di contenuti diversi, ma tutte capaci di stupirmi. In questa esperienza maturata nel carpire in incognito commenti, apprezzamenti, denigrazioni, stupore, semplici sguardi colti da paura, consapevolezza, emozione, disagio, nessuno degli osservatori mi conosce, e questo è un valore aggiunto per il confronto che ne consegue, estremamente utile per la mia ricerca.

Spesso si sente dire che l’arte per essere tale dev’essere universale, sebbene l’idea e l’opera stessa abbiano origine dalla singola soggettività dell’artista. Si tratta di una riflessione con la quale molti giovani artisti oggi stanno facendo i conti per trovare una direzione da intraprendere per il proprio lavoro. Lei, con le sue opere, sembra riuscire a far coesistere in modo bilanciato entrambe le parti, la soggettività e l’universalità; come riesce ad arrivare a questo equilibrio? Che cosa consiglierebbe ad un giovane artista ancora alla ricerca della “sua” universalità?

Non ho mai avuto la vocazione di “consigliere”. Vedo così tanto entusiasmo nei giovani artisti, una carica creativa a volte geniale ed un impegno serio intriso di grande motivazione, che verrebbe voglia a me di chiedere consigli a loro, di passare del tempo con un giovane artista, confrontarmi e dialogare. Ritengo che le contaminazioni siano l’ossatura portante nella ricerca di una propria universalità, intese come tutte le forme di espressione artistica. Oggi abbiamo enormi facilitazioni ad entrare in contatto con mostre interessanti in tutta Europa e gallerie estremamente specializzate, e la rete, con il debito filtro, ci offre un’infinità di visioni creative da tutto il mondo; se lasciamo che questi stimoli facciano il loro lavoro nella nostra mente e nel nostro pensiero diventeremo cittadini dell’universo artistico. Ma è la soggettività ad originare l’idea e, per quello che mi riguarda, il contatto con tutti quegli elementi naturali che non sono in grado di modificare a loro uso e consumo il pianeta rappresenta uno stimolo fondamentale. Se devo dare un consiglio direi di non perdere mai la convinzione del proprio linguaggio espressivo, perché solo l’artista può modificarlo unicamente per un suo senso critico e senza farsi troppo condizionare dai commenti esterni. A tal proposito mi viene in mente che intorno agli Anni ‘60 vi fu addirittura un’interrogazione parlamentare estremamente critica sull’acquisto di un Grande sacco di Alberto Burri perché ritenuto “troppo nero”… pensiamo a che cosa avremmo perso se quel  genio si fosse fatto influenzare.